Era una domenica come tante. Tre uomini, tre generazioni, tre cittadini modello. Sandro, 30 anni. Vincenzo, 50. Antonio, 70. Tutti volontari AVIS, simboli di una cittadinanza attiva, altruista, viva. Pedalavano insieme, come ogni fine settimana. Ma questa volta la strada li ha traditi.
Un’auto, una Lancia Delta lanciata come un proiettile, li ha falciati in pieno sulla SP231, nei pressi di Terlizzi. Nessuna possibilità di scampo. Le immagini parlano da sole: biciclette accartocciate come carta stagnola, parabrezza sfondato, l’auto schiantata contro il guardrail. Tre corpi senza vita. Un’intera città in lacrime. Un Paese intero che dovrebbe vergognarsi.
Il conducente, anche lui trentenne, è indagato per omicidio stradale plurimo. Ma a far più male sono le sue parole gelide al 118: “Venite, ho investito dei ciclisti”. Nessun panico. Nessun rimorso evidente. Solo la cronaca di un massacro annunciato.
Perché sì, era annunciato. In un’Italia dove 130 ciclisti sono già morti nel 2024, non si può più parlare di fatalità. È una guerra silenziosa, combattuta ogni giorno su strade strette, senza tutele, senza leggi adeguate, senza rispetto.
Chi pedala in Italia muore. Muore mentre fa sport. Muore mentre dona. Muore mentre spera. E intanto, si continua a parlare, a postare, a indignarsi per un giorno, e poi… silenzio. Fino alla prossima croce sull’asfalto.
La Federazione Ciclistica Italiana ha lanciato l’ennesimo grido: è emergenza. Ma chi ascolta davvero?
Questa non è viabilità. È complicità. Se lo Stato resta fermo, se le leggi non cambiano, se chi uccide con un’auto riceve solo un’indagine, allora il sangue versato oggi è sulle mani di tutti.