Il destino si ripete con una crudeltà spietata. Dopo il caso Belén Rodriguez, oggi è Stefano De Martino a ritrovarsi al centro di uno scandalo devastante: un video privato, trafugato illegalmente, è finito in circolazione, scatenando una bufera mediatica che brucia più di qualsiasi insulto.
La differenza rispetto al passato, però, è enorme. Nel 2011, quando Belén fu travolta dalla gogna del suo video, la legge non aveva strumenti adeguati per difenderla. Oggi invece esiste l’articolo 612-ter del Codice Penale, introdotto con il Codice Rosso: chi diffonde materiale intimo senza consenso rischia pene durissime, fino a 6 anni di carcere e 15.000 euro di multa. E quando la diffusione avviene attraverso chat, social o canali digitali, la pena può arrivare addirittura a 9 anni.
Il video incriminato non nasce da un telefono rubato, ma da un hackeraggio delle telecamere interne della casa di Carola Entronelli, compagna di De Martino. Una violazione inquietante che ha catturato momenti di intimità mai destinati a uscire da quelle mura. Da lì, la catena di inoltri su WhatsApp e altri canali è stata inarrestabile: la dicitura “inoltrato molte volte”, banale agli occhi degli utenti, diventa invece prova schiacciante per i magistrati.
La giurisprudenza italiana è chiara: chi riceve e rilancia quel materiale non è più un semplice curioso, ma diventa parte attiva del reato. Ogni click su inoltra equivale a un mattone in un muro di violenza digitale che la legge oggi punisce senza sconti.
Il paragone con Belén è inevitabile. Lei, nel 2011, rimase sola contro un web senza regole, cadendo in una depressione profonda. Lui, oggi, affronta lo stesso incubo ma in un mondo ancora più spietato, in cui un contenuto può diventare virale in poche ore. Con una differenza: questa volta la legge può agire, e chi sbaglia paga.
La domanda che brucia è un’altra: quante persone, spinte dalla curiosità morbosa o dal desiderio di condividere l’ennesimo gossip, hanno già compromesso la propria fedina penale? Quanti hanno trasformato un gesto banale in una condanna potenzialmente devastante?
Questa vicenda lancia un messaggio chiaro, valido per tutti: la privacy non è un gioco, la dignità non è un optional. Oggi Stefano De Martino diventa il simbolo di un confine che non si può più ignorare: il gossip, quando si trasforma in violenza digitale, non è più intrattenimento. È un crimine.