Doveva essere un viaggio di speranza, di gioia, di fede. Un pellegrinaggio spirituale che avrebbe dovuto avvicinare una giovane alla sua spiritualità, ma si è trasformato in un incubo senza ritorno. Pascale Rafik, una ragazza egiziana di appena 18 anni, è morta improvvisamente nella notte tra l’1 e il 2 agosto, stroncata da un arresto cardiaco mentre tentava di raggiungere l’ospedale di Colleferro. Il suo cuore si è fermato a pochi metri dall’ingresso. Non ha mai ripreso il battito.
Pascale era cardiopatica, lo si sapeva. Eppure, questo dettaglio sembra essere passato in secondo piano durante l’organizzazione del viaggio per il Giubileo dei Giovani. Alloggiava con la delegazione egiziana nella parrocchia di Artena, in provincia di Roma. Nella mattina aveva già accusato un lieve malore, ma i primi controlli non avevano fatto scattare nessun allarme. Nessuno – medici, accompagnatori, responsabili – aveva preso davvero sul serio quei segnali. Una leggerezza? Una sottovalutazione? O semplicemente un atto di fede cieca che si è trasformato in tragedia?
La situazione è precipitata dopo un evento serale a Roma. Durante il viaggio di ritorno in pullman, Pascale ha accusato un nuovo malore, stavolta grave. Il gruppo, invece di attivare tempestivamente i soccorsi d’urgenza, ha deciso di recarsi autonomamente al Val Montone Hospital. Lì sono stati tentati interventi di rianimazione, purtroppo senza successo. La corsa disperata verso l’ospedale di Colleferro si è trasformata in un epilogo drammatico: Pascale è morta poco prima di varcarne la soglia.
Una domanda scomoda serpeggia ora tra i corridoi del Vaticano e sui social italiani: si poteva evitare questa morte? Perché una giovane cardiopatica è stata esposta a un viaggio faticoso e stressante, senza un’adeguata assistenza medica costante? Chi ha deciso che “stava abbastanza bene” da continuare il pellegrinaggio? E soprattutto: dov’è oggi la voce del Vaticano in questa storia?
Mentre la comunità cattolica prega, il silenzio delle autorità ecclesiastiche pesa come una condanna. Pascale è morta in nome della fede, ma non è forse proprio la fede – o meglio, l’istituzione che la rappresenta – che avrebbe dovuto proteggerla?
Questa tragedia apre un dibattito amaro: quanti altri giovani pellegrini sono esposti ogni anno a viaggi spirituali senza un’adeguata tutela sanitaria? E quanto vale la vita di un devoto quando l’organizzazione si piega alla logica del numero, dell’evento, dell’apparenza?
Oggi non c’è solo un lutto. C’è anche un grande punto interrogativo che grida giustizia.